martedì 11 giugno 2013

prodotti locali VS import

L'Italia resta uno dei maggiori produttori alimentari al mondo, specialmente se si mette in relazione la disponibilità di aree coltivabili sul totale del territorio nazionale.

nonostante ciò si assiste ad un fenomeno che definirei assurdo: importiamo da altri paesi anche quei prodotti che abbiamo sempre prodotto.

quindi, esportiamo le nostre produzioni e consumiamo gli stessi prodotti provenienti dall'ìestero....
perchè avviene tutto ciò?

curiosando in internet mi sono imbattuto in questo articolo:


LA NOSTRA SPESA: UN PARADISO ARTIFICIALE
IN UN DESERTO ALIMENTARE?
di Ugo Biggeri e Giampietro Degli Innocenti
In Tempi Moderni, uno dei capolavori di Charlie Chaplin, una scena memorabile è quella del sogno di opulenza dei due vagabondi. Seduti affamati sul bordo di una strada sognano una casa in cui i frutti esotici (l'uva) si trovano a portata di mano fuori dalla finestra e la mucca viene a servire il latte sulla porta di casa senza bisogno di essere munta; insomma un vero paradiso. La scena risulta comica in quanto lo spettatore sa che la realtà è ben diversa e conosce come la frutta arriva alla tavola o come si mungono le mucche. Oggi però stiamo assistendo a qualcosa di simile al sogno rappresentato da Chaplin che ci coinvolge a livello collettivo. Il legame tra i nostri acquisti (non solo quelli alimentari) e la realtà è fortemente mediato se non del tutto sostituito da sovrastrutture pubblicitarie, commerciali e distributive che stanno cambiando il vissuto culturale e percezione di ciò che sta dietro i nostri acquisti. Di fatto aumenta continuamente la distanza culturale tra la vita quotidiana delle persone e l'origine dei prodotti naturali Alcune indagini svolte negli Usa ed in Italia hanno mostrato come sia diffusa una conoscenza molto approssimativa dell'origine del cibo quotidiano al punto che alcuni bambini abitanti nelle grandi città non sono in grado di disegnare un pollo vivo (lo disegnano spennato) o non abbiano chiaro da dove viene la bibita chiamata latte che bevono tutte le mattine. Ma forse ancora più preoccupante è il fatto che donne e uomini anche sopra i 50 anni, e quindi con una certa esperienza, si trovino a far la spesa e spendere più che nel passato semplicemente comprando più o meno quello che si trova sempre al supermercato sotto casa: zucchine, pomodori, insalate, carciofi. Il Paradiso artificiale del supermercato ci fa dimenticare il fatto banale che esistono le stagioni, per cui nella nostra regione o anche nel nostro paese frutta e verdura crescono naturalmente solo in alcuni periodi dell'anno. Se li troviamo fuori stagione possiamo essere sicuri di alcuni fatti:
1. provengono da molto lontano o sono stati coltivati in modo non naturale (serre riscaldate, chimica, ogm)
2. racchiudono un notevole costo energetico
3. ovviamente costano di più al nostro portafoglio!!
Se questo accade per i prodotti freschi, ovviamente la situazione diventa sempre più complessa per i prodotti trasformati o conservati. Nel Paese del pomodoro uno studio della Coldiretti a metà 2004 mostrava che l'importazione dalla Cina di pomodori preparati o conservati è risultata pari a oltre 71.000 tonnellate per un valore di 31 milioni di Euro nel primo trimestre dell'anno (2004): ciò corrisponde ad un aumento, in quantità, del 17% sull'anno precedente raggiungendo un livello quantitativo mai fatto segnare prima e conferendo alla Cina il ruolo di primo Paese fornitore dell'Italia di trasformati di pomodoro. Analizzando i dati che si trovano sull'annuario statistico Istat 2004 (dati 2003) e sull'annuario 2003 dell'Istituto per il Commercio Estero (dati 2002), in effetti si possono mostrare alcune cose interessanti. L'Italia rimane un paese con una elevata produzione agricola, ma negli ultimi anni la tendenza è stata quella di importare più derrate alimentari di quante ne esporta: riprendendo l'esempio dei pomodori (per i quali il saldo è ancora positivo) tra il 2002 ed il 2003 le importazioni sono cresciute da 58 ad 85 migliaia di tonnellate e le esportazioni sono calate da 127 a 104 migliaia di tonnellate. Su molti altri prodotti tipici dei nostri campi invece il saldo è negativo: patate, cipolle, agli; per i peperoni ne importiamo ben 59.000 tonnellate mentre ne esportiamo solo 9000.
Addirittura importiamo dall'Olanda il doppio della frutta e verdura che esportiamo in quel Paese: pur essendo quantità minime rispetto alla produzione nazionale, questo è un chiaro indicatore di un effetto distorsivo del mercato rispetto al buon senso che ci suggerisce la natura. Infine, per tutta una serie di beni alimentari la produzione nazionale (in percentuale sul totale nell'elenco successivo) non è in grado di soddisfare i consumi interni: legumi secchi (26%), frumento tenero e duro (41%), olii vegetali (52%). Viene da pensare che oltre al fatto che alcuni bambini non sappiano disegnare un pollo, la società si organizzi tra due poli: il paradiso artificiale in cui si trova tutto sempre e il deserto alimentare che circonderebbe le nostre città. Un deserto che rischia di essere tale non tanto per la capacità produttiva (che non manca), ma per la percezione culturale di un territorio che non sappiamo cosa può produrre, che rischia di divenire monocolturale, che addirittura rischia di essere abbandonato in quanto anche aziende agricole italiane iniziano a delocalizzare la produzione in paesi in cui terreni e manodopera costano meno. Un fenomeno, quest'ultimo, che sta interessando sempre più anche il biologico italiano che, nato dalla riscoperta della campagna e della sua cultura, rischia di venir risucchiato dalla competizione e dalle logiche di mercato nel vortice che porta ad accrescere le distanze tra i prodotti ed i consumatori. Il trend che allontana il campo dalla bocca, oltre che dai dati sopra esposti, è evidenziato anche dalla crescita regolare della distanza media percorsa da frutta e verdura per arrivare ai punti vendita che nel 2003 (ns. elaborazione) è stata di oltre 343 km! Uno dei fattori che favorisce questo meccanismo è sicuramente il modello distributivo che per le economie di scala si sta orientando sempre più verso la grande distribuzione (al ritmo del 4% annuo dei volumi di vendita) e in cui la strategia di vendita impone la necessità di creare il paradiso artificiale: in esso non mancano mai le varietà, ma non si accettano diversità. Anche l'Italia, pur con un sistema in cui ancora prevale la piccola vendita al dettaglio, rischia di avvicinarsi a grandi passi al del modello distributivo inglese in cui la vendita del cibo avviene ormai all'80% nella grande distribuzione (Reynolds, The Ecologist, UK, Aprile 2005, pag. 60) con conseguente scomparsa dei piccoli negozi di prodotti locali che svolgono anche un importante funzione di presidio e socializzazione sul territorio. Il buon senso ci fa intuire che ci deve essere qualcosa che non va in un sistema che porta all'abbandono delle campagne (e analogamente alla scomparsa del lavoro artigianale e manifatturiero) e se ragioniamo una po' sul perché si determina una situazione del genere ci si rende conto facilmente che una parte delle responsabilità è sicuramente nelle mani dei cittadini, dei consumatori, delle persone e del loro modo di fare la spesa. Tra i tanti cosiddetti diritti del consumatore dovremmo riappropriarci del diritto di scegliere, di non comprare ciò che non ha senso, di riportare nell'atto dell'acquisto il piacere della relazione umana e del rispetto della natura. Si può fare, si comincia a fare in Italia anche riscoprendo vecchi sani modi di fare la spesa...

giovedì 6 giugno 2013

eCOMMERCE UN VOLANO
PER LA RIPRESA DEL MADE IN ITALY

La previsione di crescita delle vendite dai siti italiani per tutto il 2013, secondo l’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm–School of Management del Politecnico di Milano, si attesta intorno al 17%, per un fatturato stimato intorno ai 11,2 miliardi di euro. Fra i principali comparti sono in crescita rispetto al 2012: l’abbigliamento (27%), l’informatica (24%), l’alimentare (18%), il turismo (13%), le assicurazioni (12%), l’editoria (4%).
Da aprile 2012 ad oggi gli acquirenti online attivi sono aumentati di oltre il 50%, raggiungendo quota 13,6 milioni a fine aprile 2013 (fonte Human Highway-Netcomm), con un picco di 14 milioni di eShopper nel periodo natalizio. L’indagine Netcomm-ContactLab sui comportamenti d’acquisto dei consumatori ha analizzato le abitudini della popolazione di 5 Paesi Europei Italia, Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna, e mostrato che in Italia a fronte di quasi nove utenti su dieci (89%) che si informano online su prodotti e brand, solo tre su dieci (34%) acquistano online, mentre in UK l’infocommerce più frequentemente si tramuta in occasione di acquisto: nove inglesi su dieci tra gli utenti regolarmente connessi ad Internet acquistano online; in Spagna lo fa un utente su due.
Crescono del 50% rispetto all’aprile del 2012 gli utenti attivi online, con un picco di quasi 14 milioni di eShopper nel periodo natalizio. La grande propensione all’uso di smartphone fa crescere del 160% il valore del Mobile Commerce, raggiungendo la quota di 427 milioni di euro.
Questi sono solo alcuni dei dati salienti presentati nel corso dell’ottava edizione del Netcomm eCommerce Forum 2013, alla presenza di oltre 4.000 invitati, tra aziende, professionisti e giornalisti, “un’adesione che dimostra come l’eCommerce sia una grande opportunità per le nostre aziende, soprattutto nella difficile congiuntura economica


FOCUS SUL CONSUMATORE ONLINE : INDAGINE NETCOMM-CONTACTLAB
Nell’indagine svolta su un panel di 61mila utenti sulle abitudini degli utenti internet italiani nell’acquisto online, parte integrante dello European Digital Behaviour Study 2013, si sono analizzati i comportamenti digitali della popolazione di cinque paesi europei: Italia, Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna. Solo il 34% degli italiani che navigano online decidono di acquistare, contro il 90% di UK, l’87% in Germania, il 79% in Francia e uno su due in Spagna.
Da una parte è sicuramente sintomo di una forte potenzialità di crescita ancora tutta da esprimere rispetto agli altri Paesi oggetto dell’indagine: l’indagine ci rivela, infatti, anche che l’8% di chi non ha ancora acquistato online pensa di effettuare il primo acquisto nei prossimi 12 mesi; a questi utenti si aggiunge un ulteriore 50% di utenti disposti a comprare online, anche se non sanno ancora esattamente quando. Di più, va confermandosi un circolo virtuoso per cui chi già acquistava, non solo in Italia ma in tutti i Paesi oggetto dell’indagine, nell’ultimo anno lo ha fatto più spesso e con maggiore varietà. A ciò si aggiungono anche se in forma più contenuta le diffidenze nei confronti dei pagamenti online, come testimonia anche la caratteristica tutta italiana di preferire il pagamento tramite carta di credito prepagata (lo dichiara il 48% degli utenti intervistati).

La crescita degli acquisti on line nel settore alimentare, dimostra come le diffidenze nell’acquisto “al buio” vengono lentamente superate, anche grazie a sempre alla qualità di ciò che viene offerto e che, quindi, non lascia delusioni in chi si affaccia su questo nuovo metodo d’acquisto. Inoltre un efficiente customer care a cui rivolgersi in casi di disguidi, non fa rimpiangere il rapporto personale con il venditore sotto casa.

Il vantaggio di questo canale di vendita alternativo è evidente: anche le piccole aziende produttrici possono vendere i loro prodotti autonomamente e a lunga distanza, e il consumatore può ridurre il tempo dedicato alla spesa e lo stress che ne consegue (traffico, parcheggio, sacchetti, ecc)

venerdì 5 aprile 2013

può il biologico alimentare il mondo?????

Fino a poco tempo fa ci è stato detto che l'agricoltura tradizionale, cioè con l'impiego di fertilizzanti e altre sostanze chimiche, era l'unica soluzione per poter produrre cibo a sufficienza per tutti, cosa che l'agricoltura biologica non avrebbe potuto fare.
Finalmente un recente studio del Rodale Institute durato oltre 30 anni ha dimostrato che i sistemi di agricoltura biologica producono rendimenti più elevati rispetto a quelli OGM ed ai sistemi di coltivazione convenzionali non-OGM. L’agricoltura biologica è anche completamente auto-rinnovabile e sostenibile, come il compostaggio, il letame ed altri metodi biologici di concimazione naturale per l’arricchimento del terreno ed eliminando la necessità dei pesticidi ed erbicidi tossici.

Non dimentichiamo, poi, l'enorme spreco di cibo che viene fatto nei paesi "sviluppati" e le malattie dovute all'eccessivo consumo di alimenti come già scritto in un precedente post.
http://noisiamociochemangiamo.blogspot.it/2012/06/cosa-ce-di-sbagliato.html

Barry Estabrook, una delle figure principali delle politiche alimentari, sostiene che il cibo biologico non solo può nutrire il mondo, ma è anche “l’unica speranza che abbiamo per farlo”. Estabrook fa notare che l’agricoltura industriale sta rapidamente impoverendo la terra e creando problemi ambientali, mentre l’agricoltura biologica è rigenerativa; ciò significa che addirittura migliora la qualità della terra, fa risparmiare i contadini (essendo priva di fertilizzanti e pesticidi), richiede meno input e meno energia e può contribuire a mitigare le emissioni globali di CO2.
Inoltre, se l’agricoltura industriale non fosse così fortemente sovvenzionata, i prodotti biologici sarebbero molto più economici. Non esiste nessuna prova scientifica che dimostri che l’agricoltura biologica non possa nutrire il mondo, dice Estabrook. Cita un documento della British Soil Association [EN] che ha scoperto che dei 98 studi sull’agricoltura biologica condotti tra il 1998 e il 2007, ogni singolo studio ha evidenziato che il cibo biologico può nutrire il mondo.

Inoltre, anche la FAO dichiara: l'agricoltura biologica puo' sfamare il pianeta (7 Marzo 2001).

venerdì 15 marzo 2013

qualità degli alimenti importati

Alimenti importati, residui cinque volte superiori

Sicurezza alimentare: rapporto Efsa controlli nelle derrate alimentari nel 2010. Primato dell'Italia: 0,3% di irregolarità

I risultati dei controlli dei residui di agrofarmaci effettuati in 29 Paesi europei  su 77.000 campioni di circa 500 tipi diversi di derrate alimentari, fresche e trasformate, hanno evidenziato un tranquillizzante 1,6% di campioni contenenti livelli superiori ai limiti di legge.
Secondo i dati dell'Efsa un prodotto su due in Europa è privo di residui, a fronte di un 98,4% con residui entro i limiti, e la percentuale arriva a 99,7% per l’Italia.

Italia nell'eccellenza
Come ricordato in un comunicato stampa di Agrofarma, la principale associazione di produttori di agrofarmaci, l'Italia detiene il primato di sicurezza alimentare, con un limitatissimo 0,3% di campioni con livelli di residui superiori ai limiti legali e un sonante 64,2% di campioni di ortofrutticoli del tutto privi di residui, come dettagliato nel Rapporto ufficiale Fitofarmaci del Ministero della Salute, pubblicato sul relativo portale.

Risultati

I programmi nazionali di monitoraggio hanno riscontrato che il 97,2% dei campioni conteneva residui entro i limiti legalmente ammessi in Europa, noti come Livelli massimi di residui (Lmr). I più bassi tassi di sforamento sono stati riscontrati negli alimenti di origine animale, con lo 0,1% di campioni sopra i limiti consentiti.
I tassi di eccedenza negli alimenti importati nell’Ue, in Norvegia e in Islanda erano oltre cinque volte più alti rispetto a quelli degli alimenti originari di queste nazioni: il 7,9% rispetto all’1,5%.
L’analisi di 3.571 campioni di alimenti biologici ha mostrato una percentuale di eccedenza dello 0,8 %.

I risultati del programma coordinato dall’UE[3] per il 2010 hanno evidenziato che il 98,4% dei campioni analizzati era in linea con i limiti ammissibili. I tassi di eccedenza dei LMR sono rimasti ampiamente stabili negli ultimi quattro anni – con una percentuale dei campioni oltre i limiti legali che oscilla tra il 2,3 % nel 2007 e l’1,2 % nel 2009. La relazione 2010 ha riscontrato che gli alimenti con la più alta percentuale di campioni oltre i LMR erano l’avena (5,3 %), la lattuga (3,4 %), le fragole (2,8 %) e le pesche (1,8 %).


La sommatoria dei residui resta un'incognita, anche se negli Usa è applicata da tempo


L'argomento non è comunque nuovo: l'Epa americana ha pubblicato ancora all'inizio del 2002 (prima che l'Efsa fosse istituita) una linea guida sulla valutazione cumulativa del rischio dell'esposizione contemporanea a diversi tipi di agrofarmaci.
Il pragmatismo americano ha comunque consentito l'identificazione di 5 gruppi di sostanze con differenti meccanismi di tossicità: Fosforganici (es. clorpirifos, fosmet, dimetoato, malathion), N-metil carbammati (es. metomil, oxamyl, pirimicarb), Triazine (es. atrazina, simazina, propazina, non più autorizzate in Europa, dove è rimasta la sola terbutilazina), Cloroacetanilidi (es. alaclor e acetoclor, non più autorizzati in Europa, dove è rimasto solo il metolachlor, che peraltro non sembra condividere lo stesso meccanismo d'azione dei primi due), Piretrine/Piretroidi (innumerevoli sostanze, la valutazione cumulativa è ancora in corso).

mercoledì 20 febbraio 2013

prodotto a co2=0

vedo da alcuni giorni la pubblicità in televisione di un noto marchio di riso italiano che si vanta di produrre a co2=0

estratto dal loro sito:

<<Oggi, la passione per il nostro lavoro ci ha portato ad essere un polo produttivo di assoluta eccellenza europea nella condivisione dei valori connessi ad una costante crescita qualitativa e tecnica che sia anche ecologicamente sostenibile.
Prodotto nella riseria XXXXX a Valle Lomellina, certificata ISO 14064, XXXXXXXXX è il primo in Europa frutto di un processo a Bilancio CO2=ZERO, dove le emissioni di gas serra da consumo energetico sono pienamente compensate dal beneficio ottenuto grazie alla produzione di energia da fonti rinnovabili, facendo propri i valori dei trattati di Durvban e Kyoto. >>

Ora io mi chiedo: è lecito dire che produco a CO2=0 se in realtà ogni attività che impiega combustibili fossili produce co2 e poi "lo metto a bilancio" con quello che produco con un qualsiasi pannello fotovoltaico sul tetto del mio capannone o con un impianto a biomasse?

chi ne sa più di me (che non so niente!) è libero di commentare.

lunedì 18 febbraio 2013

il cibo-spazzatura non danneggia soltanto il fisico

Una ricerca universitaria ha dimostrato che tra i consumatori abituali di fast food e cibi-spazzatura vi è una più alta diffusione di sindromi depressive.

sembra difficile trovare il collegamento tra le due cose.

Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Investigation dimostra che consumare cibi spazzatura altera alcune funzioni del cervello che porta a mangiarne sempre di più. Sono danni diretti all'Ipotalamo che è responsabile della sensazione di fame o sazietà. Quindi chi ne mangia regolarmente ne mangerà sempre di più con tutte le conseguenze di cui abbiamo già parlato nei post precedenti.

lunedì 4 febbraio 2013

...problemi "da uomini"






Nessuno di noi se ne preoccupa fino a quando arrivati ad una certa età, complici alcune brutte abitudini, i problemi di "virilità" iniziano a farsi vedere!.

ritengo superfluo spiegare cosa sia la disfunzione erettile, se non lo sapete (e auguro a tutti noi di non saperlo mai) basta un click sul link.

tra le cause FISICHE riconosciute ci sono le seguenti

Cause fisiche della disfunzione erettile

Nella maggior parte dei casi la disfunzione erettile è causata da qualcosa di fisico. Cause comuni includono:
  • Patologie cardiache,
  • Vasi sanguigni intasati (aterosclerosi),
  • Pressione alta,
  • Diabete,
  • Obesità,
  • Sindrome metabolica, una condizione che comprende aumentata pressione sanguigna, alti livelli di insulina, grasso corporeo intorno alla vita e colesterolo alto,
  • Morbo di Parkinson,
  • Sclerosi Multipla,
  • Testosterone basso,
  • Malattia di Peyronie con sviluppo di tessuto cicatriziale nel pene,
  • Alcuni farmaci,
  • Uso di tabacco,
  • Alcolismo e altre forme di abuso di sostanze,
  • Trattamenti per il cancro alla prostata o per ingrandimento della prostata,
  • Interventi chirurgici o lesioni che colpiscono l’area pelvica od il midollo spinale.



Delle 15 cause riportate 6 sono una diretta conseguenza dell'alimentazione sbagliata e altre 3 sono legate a "brutte" abitudini.

ciò significa che 9 cause su 15 dipendono solo ed esclusivamente da ciò che noi uomini facciamo per noi stessi.



avere cura di noi stessi ci permetterà di godere di alcuni piaceri della vita più a lungo possibile!

mercoledì 30 gennaio 2013

il sacchetto di plastica nel forno

....è da un po' di tempo che, ogni volta che vedo in tv la pubblicità del pollo che cuoce in forno in un bel sacchetto di plastica, mi chiedo se questa tecnica sia veramente sicura.



il mio scetticismo mi porta a pensare che la plastica a 200 gradi, per quanto resistente sia, possa "insaporire" il famoso pollo.
non ho fatto molte ricerche per sapere cosa gli esperti sostengono, ho visto che Altroconsumo li ha dichiarati sicuri per la salute degli alimenti e di chi li consuma, mentre Il Salvagente in una vecchia ricerca diceva che non sempre lo erano e che, in determinate circostanze potevano rilasciare alcune sostanze nei cibi che vi stanno dentro.

mi sembra di capire, che con questa tecnica, si evita di sporcare la teglia, il forno e di "insaporire" i cibi già conditi che vi stanno dentro.

Quindi, per queste utilità, inquiniamo di più producendo più plastica, mangiamo alimenti contaminati da chissà cosa rischiando la nostra salute e dobbiamo accettare i condimenti di dubbia qualità che vi stanno all'interno.

ne vale veramente la pena?????

chiunque ne sappia di più sull'argomento ci dia maggiori dettagli.